"Assalto di terroristi del GIA ad una caserma della polizia algerina", "Massacro di cittadini inermi in un villaggio algerino", "Assassinato un giornalista della Radio Televisione algerina", "Uccisi dipendenti stranieri di una società operante nel territorio algerino": purtroppo con notevole frequenza capita di leggere resoconti giornalistici od ascoltare notizie del genere di quello che precede. Ma cosa si percepisce della tragedia che vive l'Algeria, quanto ci si rende conto dell'inspiegabile violenza che rimane sullo sfondo di tutte le notizie e, ancora, quanto è viziato qualunque giudizio dalla cronica mancanza di un serio approfondimento in merito?
Forse le stesse domande se le è poste Patrick Forestier, l'autore del libro (traduzione italiana edita dalla "Editori Riuniti") che, caso probabilmente unico, è riuscito nell'impresa di raccogliere e pubblicare la testimonianza di uno degli attori di questa tragedia. Il risultato, occorre dirlo, è assolutamente dirompente, un vero e proprio pugno nello stomaco del lettore che, dopo aver letto il libro, valuterà con altro animo (od anche angoscia) l'eventuale riproporsi di notizie quali quelle d'apertura.
Il libro è il frutto degli incontri dell'autore con un uomo senza volto e senza nome, un ex terrorista del GIA che ha usufruito della legge del 1995 della rahma (clemenza), in virtù della quale, a fronte del proprio pentimento, è tornato ad essere un cittadino libero che, per usare le sue parole, è "un condannato che gode di un rinvio".
Il racconto, ripercorrendo l'intero arco della parabola che ha visto un giovane qualunque divenire prima un feroce assassino, tenace e convinto assertore della giustezza della lotta armata al servizio dell'Islam, poi un altrettanto convinto critico delle scelte e dei programmi dei suoi "fratelli", getta la luce sull'evoluzione della crisi più profonda vissuta dalla società algerina. Questo è il motivo per cui l'autore lo ha scritto ed il lettore dovrebbe forse leggerlo: i fatti e le circostanze narrate, che a volte danno una vera e propria nausea, assumono una loro intrinseca valenza solo se la chiave di lettura è quella volta a comprendere le motivazioni, a volte i pretesti, della lotta armata, l'angoscia delle popolazioni locali costrette a vivere sotto la minaccia pressante della guerra santa, i meccanismi del terrore e l'ignoranza che pervade l'estremismo islamico.
Seguendo il filo della narrativa ci si rende conto della mancanza di pragmatismo, dell'assenza di un progetto politico ed economico tra gli emiri che conducono la lotta armata; o, ancora, della superficialità della cultura religiosa dei guerrieri che aspirano alla creazione di uno stato teocratico.
Un altro dato che emerge con chiarezza dalle pagine è lo spaccato di una società in cui certi valori umani, quali la lealtà, sono assolutamente scomparsi: la delazione regna sovrana ed a tutti i livelli, in famiglia, tra vicini di casa e colleghi di lavoro, nonché tra gli stessi terroristi; le lotte all'interno di queste schiere, anzi, si riconducono spesso a squallide storie di favoritismi e nepotismo.
Non occorre, in questa sede, riproporre un pur breve sunto delle operazioni "di guerra" descritte nel libro, tanto sono cruente e ripetitive: nulla aggiungono al quadro descritto. Sia consentito però un accenno al triste episodio che riguarda un militare di leva che, dopo essere stato duramente percosso per un'intera giornata, viene costretto a scavarsi la propria fossa dove viene gettato, vivo e cosciente. Come spiegare tanta violenza se non ragionando sulla circostanza che i mujahiddin vivono in un universo mistico, pensando di rappresentare il braccio armato di Dio ed uccidono facendo riferimento al libro sacro. I massacri senza motivo apparente degli abitanti dei villaggi, di uomini, donne e bambini, che appaiono incomprensibili alla maggioranza degli algerini ed alla totalità degli occidentali, trovano una loro aberrante spiegazione nello spirito dei combattenti della fede: le loro vittime non sono innocenti ma colpevoli di un peccato originale, quello di non credere in Dio. Ecco allora che il militare di leva, non impegnandosi nella jihad, dà il proprio appoggio al potere costituito e per ciò solo merita di morire.
Di sicuro interesse poi, dal punto di vista di una pubblicazione di cultura dell'intelligence, appare la parte in cui è descritta la vita che il terrorista conduce prima di essere scoperto, poiché la sua abilità nel dissimulare la sua militanza è assolutamente rimarchevole, anche per analisti di un Paese, quale il nostro, che ha combattuto e sconfitto il terrorismo più organizzato dei paesi occidentali.
In tale chiave di lettura è forse opportuno citare anche un altro degli episodi narrati, indicativo del grave pericolo che il fenomeno può rappresentare per quei Paesi che, come il nostro, dipendono dagli approvvigionamenti di gas algerino. Si legge infatti che uno dei pochi attentati non portati a termine è stato proprio quello ideato contro il gasdotto algerino, principale fonte di proventi per lo Stato.
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